SISTINA 57
IL PROGETTO
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Cosa cambia con la riforma del catasto

Ottant’anni e non dimostrarli… o forse no. Nasceva infatti nel 1939, il Catasto inteso come archivio delle proprietà immobiliari, diviso in catasto dei terreni, in cui sono censite le aree dove non è stato costruito, e il catasto fabbricati, che comprende case, capannoni e qualsiasi tipo di costruzione. In questo archivio sono state registrate una serie di informazioni che identificano il singolo immobile, dal comune e la zona di riferimento ai codici che identificano i singoli pezzetti che compongono la proprietà come, ad esempio, il giardino e il garage.

Nel Catasto oltre alla categoria e alla classe che distinguono gli immobili per tipologia, finiture o posizione, il dato forse più importante e, forse, il più “sensibile” è la rendita catastale, che è il reddito che l’Agenzia delle Entrate attribuisce a ogni singolo immobile, fabbricato o terreno. La rendita catastale dovrebbe corrispondere a un canone di locazione annuale che, chi possiede un immobile, potrebbe ricevere qualora decidesse di metterlo in affitto. Un archivio complesso, quindi, che, se aggiornato, rappresenterebbe la fotografia del patrimonio immobiliare italiano.
Fino ad oggi in molti hanno provato ad intervenire, con operazioni di lifting, per ringiovanire una banca dati che contiene informazioni, ormai, molto datate. Diversi esecutivi hanno provato a modificare il catasto, nel 1993, nel 1995, nel 1996, nel 1998 e infine nel 2014, ma i tentativi sono stati tutti ininfluenti se non addirittura fallimentari. Certo, una riforma che riporti ai giorni nostri una fotografia ormai ingiallita e quasi sbiadita non è un’operazione da poco anche considerando gli strumenti tecnologici e digitali oggi a disposizione. I numeri infatti sono impressionanti. Secondo l’Agenzia delle Entrate in Italia ci sono 64,4 milioni di immobili, le case sono 34,9 milioni, mentre le cosiddette prime case sono 19,5 milioni.
La realtà però non sarebbe questa. Proprio le “prime case” ad esempio, che godono di vantaggi fiscali importanti, sarebbero, infatti, circa due milioni in meno se confrontiamo il dato con quanto dichiarato dagli italiani nelle proprie dichiarazioni dei redditi. Coniugi, che pur vivendo insieme, dichiarano di risiedere in due case diverse o affitti non dichiarati, sono le principali cause di questa differenza. Un altro dato che mette in luce le rughe sul volto che il Catasto ha, oramai, da vari anni, è quello che riguarda gli abusi edilizi.
L’Istat ha dichiarato, recentemente, che circa il 17 % delle abitazioni sono abusive con un picco al sud di quasi il 46%. Case, capannoni, magazzini che sono stati anche fotografati e contati, la cui somma dà un risultato di 1,2 milioni di immobili sconosciuti al catasto. Ma, se far riemergere gli abusi edilizi è lo scopo primario ed ufficiale, inserito nel comma 1 dell’art. 6 della delega, dell’ennesimo tentativo di riformare il Catasto da parte del Governo, sempre nell’art. 6 ma al comma 2 c’è il vero e discusso progetto che potrebbe rivoluzionare il mercato immobiliare italiano.
Con questa iniziativa, infatti, il Governo ha deciso che dal primo gennaio 2026 le informazioni presenti nel catasto saranno integrate «attribuendo all’unità immobiliare un valore patrimoniale e una rendita attualizzata sulla base dei valori di mercato».
Una bomba avrebbe avuto un effetto meno deflagrante. Immediatamente si sono sollevate le grida di chi ha accusato il Governo di inserire una patrimoniale e impoverire gli italiani proprietari della casa dove abitano.
La verità e’ che al momento la rendita catastale non corrisponde al valore di mercato e questa discrepanza genera iniquità fiscale: in pratica, le tasse sugli immobili non sono calcolate sulla base dei redditi che realmente quegli immobili possono fruttare con gli affitti di oggi.
La differenza tra i valori catastali e quelli di mercato è evidente non solo tra diversi comuni, ma anche all’interno degli stessi comuni tra centro, aree intermedie e periferie: sono avvantaggiate soprattutto le case nelle zone centrali delle grandi città, perché accatastate prima, rispetto a quelle in periferia. E qui intervengono le forze politiche a difesa della riforma: «La sperequazione tende a favorire i segmenti della popolazione con maggiore ricchezza abitativa», ha scritto l’ufficio parlamentare di Bilancio alla commissione Finanze. E, ancora, sempre lo stesso ufficio ha evidenziato “l’incapacità dell’attuale sistema catastale di restituire un’adeguata valorizzazione degli immobili si riflette nell’iniquità della distribuzione del prelievo”. Altre forze hanno invece accusato il Governo di destabilizzare il mercato immobiliare e impoverire gli italiani proprietari della prima casa. Ma chi ha ragione? Al momento è difficile dirlo. La delega è ancora troppo generica e se i principi, come abbiamo accennato sono giusti, il pericolo di destabilizzazioni e quindi di sperequazioni è dietro l’angolo.
Una cosa è certa, i maggiori aumenti si verificherebbero per le abitazioni di tipo civile, oggi classificate A2, principalmente nei centri storici delle città più grandi come Milano (+310%), Napoli (+223%) e Roma (+222%). Per le abitazioni di tipo economico, il massimo si registrerebbe sempre in centro a Milano (+379%), Venezia (+329%) e Napoli (+246%). Decisamente più contenuti sarebbero gli aumenti in periferia e in zona semicentrale. A questo si aggiungerebbero gli effetti della revisione sull’Imu e sull’Isee, che potrebbero colpire anche i piccoli proprietari che, grazie ai valori catastali bassi delle proprie abitazioni, riescono ad accedere a bonus e servizi agevolati grazie ad un Isee basso.
Certo, tutto questo dovrebbe vedere la luce nel 2026 e “tre anni sono lunghi da passare” come diceva una vecchia canzone. Potrebbe accadere di tutto, da un ridimensionamento ad un vero fallimento dell’operazione. Non sarebbe la prima volta. Toccare “la casa” è sempre un’operazione rischiosa e bisogna comunque ponderare bene gli effetti di una riforma del genere. Certo “il tesoretto” è di tutto rispetto. La somma, infatti, delle rendite catastali (cioè la somma imponibile dal fisco) degli edifici di categoria A, esclusi gli uffici, è di 16,9 miliardi di euro, che in caso di riforme radicali subirebbe un notevole incremento. Il Governo, però, ha assicurato in più sedi, che la riforma non influirà sul gettito totale legato agli immobili (40 miliardi, di cui circa 20 l’Imu e gli altri derivanti da altre tasse), ma questo non vuol dire che singolarmente un cittadino non possa pagare di più.
Ma perché il governo è così determinato a portare avanti la riforma? La questione è legata al Pnrr. I prestiti inizieranno ad essere ripagati nel 2027. La nuova disciplina catastale entrerebbe in vigore l’anno prima. Il documento che illustra il Piano di Ripresa e Resilienza comprende anche, tra le ampie e vincolanti misure di accompagnamento, una riforma fiscale, vista come elemento prioritario per combattere le “debolezze strutturali del paese”. Quindi bisogna assicurarsi entrate fiscali sufficienti a far fronte ai debiti da ripagare. E la ricchezza principale degli italiani risiede nel loro patrimonio immobiliare.

In questi giorni, il contrasto politico sembra essersi un po’ affievolito. Alla vigilia dell’approdo della delega in Parlamento, che dovrebbe avvenire i primi di maggio, si registra un’apertura al dialogo. La disponibilità del Premier a risolvere i problemi, potrebbe favorire quelle modifiche necessarie per convincere le forze politiche più ostili ad accettare la riforma del catasto in tempi brevi.

Nel frattempo i tecnici di entrambi gli schieramenti stanno studiando con attenzione il provvedimento e sono pronti a presentare le opportune modifiche e “individuare una soluzione condivisa, che garantisca i cittadini e assicuri al governo la possibilità di affrontare le emergenze del Paese” come ha ribadito il Ministro dell’Economia, Franco.

GE



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