SISTINA 57
IL PROGETTO
Società

Perché non ha funzionato la previdenza integrativa

Torniamo a parlare di previdenza integrativa, secondo pilastro del sistema pensionistico italiano, introdotta con D. lgs n. 252 del 5 dicembre 2005. Ad oltre quindici anni dalla sua introduzione, la domanda principale che ci si pone è: perché non ha funzionato come previsto?

Nelle intenzioni del Legislatore lo scopo della previdenza complementare era quello di integrare la previdenza di base prevista e come tale obbligatoria, per garantire alla popolazione pensionata un potere di acquisto che avvicinasse la disponibilità di spesa del pensionato a quella disponibilità che il soggetto stesso aveva durante la propria vita lavorativa.

Se andiamo a guardare la diffusione della Previdenza Complementare, come risulta nella tabella allegata (fonte COVIP – La Previdenza Complementare – Dati Statistici, Dicembre 2021) a fine 2021 risultano aperte circa 9,75 milioni di posizioni, relative a circa 8,8 milioni di lavoratori iscritti, corrispondenti al 33% dell’intera forza lavoro. Tali posizioni per oltre il 90% sono riferite a lavoratori dipendenti.

Proviamo a ricercare le cause di questo mancato funzionamento di uno strumento che sembrava essere la soluzione ottimale di una problematica trascinatasi per anni alla quale si sperava di dare una definitiva sistemazione e soluzione.
È possibile ricondurre le cause di tale mancato successo a motivazioni di vario tipo, da quelle puramente psicologiche e di immagine a quelle propriamente strutturali ed economiche, oppure tecnico legale.

La iniziale diffidenza che ha accompagnato l’uscita dei fondi pensione sia chiusi sia aperti e dei piani individuali, a fronte delle grandi aspettative del pubblico, non è andata scemando nel tempo, anzi si è irrobustita a causa della macchinosità organizzativa dell’intero sistema e della complessità fiscale che caratterizza tanto le varie fasi di accumulo quanto il riscatto o le fasi di erogazione.

Il legislatore aveva di fronte l’arduo compito di uniformare una serie di situazioni estremamente variegate e tra loro differenti. Tanto per citarne alcune, le differenze tra i soggetti destinatari, intesi in termini di lavoratori dipendenti, lavoratori autonomi, lavoratori a tempo indeterminato e lavoratori a tempo definito, lavoratori ripartiti, lavoratori a progetto…

Il tutto nel contesto in cui alcuni lavoratori, soprattutto dipendenti, già partecipavano a varie forme di previdenza per così dire aggiuntiva rispetto alla previdenza di base obbligatoria per legge, organizzate a livello aziendale o sindacale, in una qualche forma associativa o altro.

Inoltre, la più o meno coincidente introduzione di nuove tipologie di rapporti lavorativi, un esempio per tutti legge Biagi del 2003 e le continue modifiche (come, ad esempio, somministrazione, voucher, contratti co.co.co) a seguito delle riforme susseguenti, introducevano una serie di figure lavorative che difficilmente si sarebbero inquadrate nella già complessa architettura della previdenza complementare cosi come concepita, e che pertanto sarebbero state destinate aprioristicamente a rimanerne fuori.

Il tentativo di ricercare una complessiva situazione di compromesso tra le esigenze tipiche delle organizzazioni associative e gli operatori finanziario – assicurativi alla ricerca di una propria area di business, gestito in un contesto volto alla tutela delle situazioni precostituite e di una fiscalità già in partenza poco incentivante, hanno prodotto una scarsa soddisfazione nell’utenza finale, cioè nella platea dei lavoratori dipendenti e autonomi, unici e veri destinatari della previdenza integrativa.

Il dibattito è quindi andato sempre più spostandosi dagli aspetti previdenziali veri e propri oggetto delle tutele che venivano introdotte, verso aspetti fiscali, finanziari, economico- gestionali.

Non tanto la necessità di coinvolgere nella previdenza complementare categorie e numeri sempre maggiori di lavoratori autonomi, di estendere le tutele e l’accessibilità ad essa all’intera categoria di lavoratori dipendenti mediante una continua e costante semplificazione di tutti i meccanismi di accesso e funzionamento, quanto la valutazione del carico fiscale nelle fasi di accumulo, riscatto ed erogazione, la disponibilità , la scelta e la comparazione tra le varie forme di investimento dei capitali raccolti, sono stati gli argomenti del dibattito e del confronto continuo.

Gli operatori finanziari e assicurativi hanno costituito al proprio interno, ovvero a latere tramite società o fondi collegati o partecipati, specifici comparti ad hoc per gestire quello che si è presentato come un nuovo business. Il confronto tra di loro e tra le linee di investimento, assicurative, obbligazionarie o miste o più o meno azionarie, ha occupato quasi per intero il dibattito in materia.

Il tutto, mentre una vasta platea di lavoratori restava scettica di fronte all’intero sistema della previdenza integrativa, aveva un complicato e difficile accesso ad essa, quanto non addirittura ne rimaneva esclusa in partenza. I meccanismi del marketing e non quelli delle tutele socioeconomiche hanno guidato e continuano a guidare la diffusione di tutti gli strumenti di previdenza integrativa nel nostro Paese.

In sostanza, come provvedere al capillare coinvolgimento di tutte le categorie di lavoratori e come semplificare i meccanismi di accesso all’intero sistema della previdenza integrativa non è stato il tema base del dibattito e del confronto, bensì si è guardato prevalentemente a tutto il sistema di previdenza integrativa riferito a quei lavoratori che del meccanismo erano già entrati a farne parte o che avevano facile accesso ad esso.

Anche in questo caso, però, non sì andati nella direzione di accrescere la fiducia e la sicurezza dei partecipanti alla previdenza complementare. Lo scetticismo dei lavoratori autonomi non è stato mai vinto, soprattutto dal punto di vista fiscale e di possibili timori legati a controlli e aumenti delle tasse.

Inoltre, gli strumenti previsti a tutela dei lavoratori dipendenti aderenti ai vari meccanismi di previdenza integrativa sono risultati inadeguati a fornire una reale garanzia. La previdenza complementare del lavoratore dipendente non gode delle stesse tutele di cui godono i contributi obbligatori. Non sono previsti per la previdenza integrativa meccanismi di riscossione coattiva tramite ruoli. Il principio di automaticità della prestazione a favore del lavoratore non vale e la diffida accertativa non è adottabile.
Le quote non pagate dal datore di lavoro rappresentano per questo un debito verso il Fondo Pensione e non verso il proprio dipendente. Il Fondo può soltanto avvisare il dipendente dell’esistenza di inadempienze da parte del datore di lavoro e per ottenerne la condanna al pagamento dei contributi non versati è pertanto necessario che il Fondo stesso sia parte del giudizio, con tutte le difficoltà di una tale situazione.

La presenza del Fondo di Garanzia INPS per la previdenza Complementare mentre svolge un ruolo utile e attivo nei casi di fallimento o cessazione del datore di lavoro, non copre i casi di inadempienza di questo e né d’altronde potrebbe farlo.

Di fronte all’intero scenario rappresentato, pertanto, non dobbiamo stupirci del fatto che la previdenza integrativa non abbia funzionato e dobbiamo guardare a opportuni correttivi e a meccanismi volti ad includere tutta quella vasta platea di lavoratori, soprattutto temporanei e non sistematici, che oggi ne restano aprioristicamente esclusi, oltre ovviamente a una necessaria e sostanziale inclusione dei lavoratori autonomi.



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