SISTINA 57
IL PROGETTO
Cultura

YALTA, libro di Luca Riccardi

Cosa fu realmente Yalta, ovvero l’incontro fra Roosevelt, Stalin e Churchill in Crimea quando ormai le armate hitleriane erano vicine alla totale sconfitta sia ad Est che ad Ovest? La celebre conferenza è stata valutata in molti modi: una opportunità perduta ma anche un modo per tradire le ragioni della democrazia, fino a coloro che non l’hanno considerata tanto decisiva come poi è apparso.


Lo storico di relazioni internazionali, Luca Riccardi invece nel suo volume “Yalta. I tre Grandi e la costruzione di un nuovo sistema internazionale”, offre una nuova e diversa versione: “dare vita a un accordo sul quale poi poter costruire l’ordine post bellico fondandosi su una politica multilaterale che avrebbe dovuto attenuare le inevitabili diversità ideologiche e di interessi dei vincitori”. Una volontà che andava dunque nella direzione di quella che poi sarebbe diventata la “guerra fredda”. Su un punto però l’autore insiste: “la storiografia ha sufficientemente accertato che a Yalta in realtà non ci fu nessuna divisione dell’Europa”.


Riccardi ripercorre così tutti i passaggi che portarono all’incontro dei tre Grandi con la loro diplomazia, le varie strategie usate e talvolta divergenti in campo “occidentale”, i punti di caduta faticosamente raggiunti sui problemi più importanti: l’assetto della Germania, la Polonia, le riparazioni da chiedere al popolo tedesco (o meglio, da imporre), ma anche la sistemazione geopolitica di vaste aree del mondo: Jugoslavia, Grecia, Turchia, Iran, come pure l’Oriente, dove già spuntava, con la disfatta giapponese, l’astro nascente della Cina. Con uno stile discorsivo l’autore descrive le intenzioni di Roosevelt, Stalin, Churchill, ma anche le psicologie che hanno dettato le loro scelte: Roosevelt viene descritto come un Presidente al tempo stesso idealista e pragmatico, alle prese con apparati che non sempre andavano nella stessa direzione, talvolta oscillante nei giudizi, sempre convinto che Stalin non si dovesse spingere all’angolo e quindi più di volta disponibile a considerare il suo punto di vista. Churchill era invece preoccupato che il confronto a tre in realtà divenisse a due. Sapeva di essere a capo di un Impero in declino e prostrato da una resistenza stremata nella lotta al nazismo. E temeva che senza la Francia, giudicata dagli altri due una sorta di “parente povero” dei vincitori, il Regno Unito non avrebbe potuto reggere la difesa dell’Europa da future minacce. Inoltre, non gli era sfuggito il fatto che Roosevelt, nel corso dei colloqui, si era lasciato sfuggire che gli Stati Uniti avrebbero tenuto le proprie truppe in Europa non più di due anni.


Riccardi felicemente delinea così i comportamenti dei tre: “giocarono la loro partita puntando su cavalli diversi. Roosevelt nonostante le sue condizioni di salute, su quello del futuro. La nuova grande organizzazione internazionale…Stalin, non c’è dubbio, puntò sul presente. Una realtà costituita dalla splendida vittoria militare…questo gli dava il diritto di costruire un sistema di sicurezza, acquisire compensi, affermarsi come l’alternativa ideologica al mondo rappresentato dagli altri due vincitori. Churchill inevitabilmente dovette puntare sul passato, ovvero sulla tradizione e sulla esperienza…Il declino della Gran Bretagna era evidente, ma i meriti acquisiti nella guerra – la tenacia – l’avevano resa parte integrante di un equilibrio mondiale che altrimenti avrebbe fatto a meno di lei”.


Il passare in rassegna i giorni dei colloqui permette all’autore di farci comprendere gli obiettivi, gli errori, le contraddizioni dei tre Grandi. Ma emergono altresì alcuni elementi di riflessione che ancora oggi potrebbero essere utili per leggere le attuali tensioni nel mondo, Ucraina compresa.
Risulta infatti evidente come nella condotta di Roosevelt sia presente la necessità di far fronte a due contrapposti sentimenti americani: interventista e isolazionista. La linea tenuta da Stalin invece era quella che ancor oggi maschera l’espansionismo russo, ovvero la necessità di avere confini sicuri attraverso l’egemonia su stati confinanti. Non a caso uno dei nodi più intricati da sciogliere fu quello relativo al futuro della Polonia. L’intesa finale in realtà fu superata dalla situazione reale: erano stati i Russi a liberare quel Paese, a sostenere un governo “amico”, a ottenere in definitiva che fra l’Urss e la Germania vi fosse una sorta di repubblica cuscinetto controllata da Mosca. In quel frangente, insomma, per l’autore, Roosevelt non fece passi indietro, pur avendo un settore importante della sua opinione pubblica di origine polacca, ma si limitò a prendere atto del fatto che Stalin aveva con le sue armate raggiunto quei territori sottratti ai tedeschi e non era possibile farlo arretrare.


Sulla grande questione della Germania riemergono particolari che ormai sono dimenticati: certamente vi fu in quel momento una volontà non dissimile fra i Tre di dividere il territorio tedesco. Il libro rammenta la varietà di soluzioni fino a quella che ripristinava la Prussia e una miriade di piccoli stati. Si voleva impedire una rinascita militare del Paese sconfitto, ma con metodi diversi. Quello sovietico, sia pure con astuzia consumata, finiva con il gettare il mondo tedesco in una precarietà economica e sociale quasi “rurale”, eliminando la possibilità di ricreare in quello Stato un qualsiasi tipo di industria moderna. Non si arrivò a questo ragionamento estremo per la opposizione di Stati Uniti e Regno Unito. Eppure, paradossi della storia, nel terzo millennio si sono levate analisi negli Stati Uniti che individuavano nella potenza economica tedesca un avversario che sarebbe stato meglio “piegare”. Alla fine, si raggiunse una mediazione che impedì l’umiliazione completa del Paese sconfitto e ridotto in macerie. Non per generosità, ma piuttosto per interesse. E fu un bene perché, altrimenti, assai più lungo e complicato sarebbe stato il cammino dell’Europa così come è stato vissuto dal Piano Marshall fino alla Unione europea.


Certamente lo scoglio determinante da superare fu quello della sicurezza. E ancor oggi la sicurezza non è forse l’ossessione, ma anche l’alibi della Russia di Putin, questa volta nei confronti della Nato? E le dure critiche all’Occidente non sono forse parenti di quel ruolo alternativo che Stalin con abilità e cinismo aveva prefigurato a Yalta? Oggi la posta in gioco appare essere sempre l’Europa pur se muta il Paese teatro della disputa: ieri la Germania, oggi l’Ucraina. Le pagine che ricordano i negoziati si affollano di figure che li hanno animati e condizionati: ministri, diplomatici, dirigenti di amministrazioni, esperti. E questa ragnatela di idee, proposte, contatti, scontri ci fa capire quanto sia complicato il terreno delle relazioni internazionali, tenendo conto inoltre che a Yalta non si fronteggiavano dei contendenti ma dei vincitori.


Ma c’è una ulteriore considerazione da fare, leggendo il libro di Riccardi. Le divisioni “concettuali” e politiche in campo occidentale riguardavano il come arrivare ad un nuovo ordine mondiale. Non a caso il libro racconta la discussione su quello che sarebbe diventato in un secondo tempo l’Onu. L’alternativa era fra “aree di influenza” e compromessi. L’amministrazione americana diffidava della prima opzione, ma la realtà emersa dalla conferenza di Yalta fu ben diversa: si trovarono dei compromessi, ma in seguito a prevalere furono le sfere di influenza culminate della contrapposizione Est-Ovest. Il compromesso, per semplificare, era preferito perché poteva preludere ad un assetto multipolare, diremmo oggi, dinamico, aperto alla collaborazione in quanto non prevedeva nessuna prevalenza. Le sfere di influenza invece non potevano che diventare parte di un equilibrio immobile nel tempo. Ed anche in questo caso qualche considerazione su ciò che avviene oggi si rivela di una certa utilità.



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